A ricordo del «Duca»

È morto a Monza, l'11 gennaio alla vigilia della festa del Battesimo di Gesù, mons Dino Gariboldi, ex Arciprete di Monza che ha accompagnato la mia vocazione per tutti i 23 anni di permanenza nel Monastero di Monza.
Autore:
sr Maria Gloria, Riva
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Si chiamava Leopoldo, anzi: monsignor Gariboldi, arciprete di Monza, ma per tutti era don Dino. Per me invece e, soprattutto, per il mio amico e fratello Giuse, era semplicemente (e un po’ solennemente) il Duca; un titolo mutuato dal Sommo Poeta, accompagnato nel suo viaggio divino dal grande Virgilio. Sì, Giuse (Giuseppe Calegari) attribuiva alla guida di don Dino il suo ritorno convinto in seno a Madre Chiesa. Don Dino, grazie alla sua profonda cultura, con il suo carattere forte, a volte irruente, ma con una sorprendente capacità di affetto e paternità, seppe guidare Giuse e molte altre anime verso la bellezza di Cristo.

La prima volta che lo vidi fu qualche mese dopo la mia entrata. Avevo partecipato al suo ingresso nel Duomo di Monza, nel 1980, su invito della mia nonna materna che abitava all’ombra della Basilica, proprio di fronte al Monastero delle Sacramentine. Mio nonno era morto due anni prima in quello stesso il 13 gennaio e c’era la Messa di suffragio in Duomo. Vidi il nuovo Arciprete, lo ascoltai, ma non ebbi poi modo di avvicinarlo personalmente.
Nel marzo del 1984 ero già entrata come postulante fra le cosiddette suore Sacramentine. Era un anno importante per il mondo e la Diocesi: si chiudeva l’anno speciale della Redenzione, voluto da Giovanni Paolo II nel 1983, e la croce di San Carlo, con la reliquia del chiodo del Salvatore, fece il giro delle parrocchie diocesane, giungendo a Monza proprio nella quaresima dell’84.
Mi rivedo trepidante dietro la porta della clausura con tutte le sorelle schierate: una sorta di Calimero in mezzo a un tripudio di bianco e rosso. Ero la quarantunesima e nonostante le difficoltà iniziali mi sentivo fiera di aver conosciuto quella schiera di sante donne e di essere annoverata come una di loro.
Finalmente la porta si aprì, entrò solennemente la croce in silenzio, commosse la baciammo una per una, mentre don Dio da dietro gli occhiali ci guardava compiaciuto. Un breve canto poi applausi e saluti. Fu allora che don Dino mi fissò e chiese di me, chi fossi e da dove venissi. Quando seppe che ero una figlia della parrocchia del Duomo, che lì ero stata immersa nell’acque battesimali e avevo conosciuto la fede, mi sorrise con calore e disse, rivolto alla Madre Superiora (sr Maria Immacolata), con il suo spiccato senso dell’umorismo:«Bene, ora siete Alì Babà e i quaranta ladroni!»
Mi piacque subito e iniziai a scrivergli ogni tanto, per varie occasioni. Nonostante la sua proverbiale riluttanza ad entrare in diretto contatto col mondo femminile, non fu difficile relazionarsi con lui, per l’amicizia e l’affetto che mi legava a suor Maria Natalia sua compaesana ed economa della mia comunità. Il momento però che sigillò la nostra amicizia fu quello della mia professione solenne. Era il 1990, chiesi e ottenni di poter fare la professione nelle mani del Card. Carlo Maria Martini. Lo chiesi un anno prima ma non calcolai che ricorreva anche il decennio dell’ingresso di Mons Dino Gariboldi come arciprete della Città.
Essere monzesi ed essere storicamente parte della parrocchia del Duomo aveva ancora (a quel tempo) un certo sapore di privilegio spirituale, di benedizione divina. E così fui felicissima della coincidenza: decennio di entrata in diocesi del Cardinale, decennio di entrata nel decanato di Monza di don Dino e mio sì definitivo a Dio! Si decise il 7 gennaio: il D-Day per l’ingresso di Martini in diocesi e, qualche giorno prima dell’anniversario di mons. Gariboldi.
Don Dino sorprese me e tutta la mia comunità prestando alla cerimonia un pezzo prezioso del “tesoro del Duomo”, un antico pastorale con l’effige di San Giovanni Battista.
Mi capitò più volte poi di incontrarlo e sempre mi colpiva il suo giudizio chiaro sugli eventi e sulle situazioni, a dispetto di una timidezza che, a volte, lo rendeva ruvido aveva una sensibilità fuori dal comune che certamente fu anche per lui causa di sofferenza. Quando lasciai il Monastero per fondare qui, nel Montefeltro, la mia attuale esperienza religiosa mi sostenne in modo inaspettato e si mostrò sempre certo della riuscita. A lui, e anche a Mons. Enrico Rossi, debbo quella certezza di bene che mi ha sempre accompagnata fino ad oggi anche nei momenti difficili.
Che il Signore ci doni sempre il conforto di santi sacerdoti, forse non privi di difetti umani, come ogni persona, ma certi del bene e del ruolo che essi hanno inseno alla comunità. Certi soprattutto che tutto e solo si compie in Cristo. Così è stato per me, e per molti suoi “figli”, il Duca e così, spero, lo si ricorderà sempre.