L'uomo che guardava nell'infinito

Si chiamava Mario Giacobbe, ed era veramente un patriarca, per la saggezza e per la sua tenacia, ma per noi era Mariolino, oppure babà, per quell'accento calabrese che aveva sr Teodora nel chiamarlo. Il ricordo per la sua improvvisa scomparsa, il 27 novembre, nelle parole di sr Maria Vera

Non era un uomo di molte parole. Era una sua caratteristica fin dalla giovinezza e anche sua suocera, già al tempo del fidanzamento con la figlia, l'aveva definito “muto”. In compenso aveva una grande acutezza di sguardo che lo faceva attento agli altri e alla realtà. Mario Giacobbe, il nostro patriarca, come lo chiamava sempre sr Gloria, è tornato nel seno di Abramo il 27 novembre sera, festa della Medaglia Miracolosa e antivigilia della festa della sua amata Beata Maria Maddalena dell’Incarnazione. Si è riunito al fratello don Mimmo e all’amata moglie Grazia che già da sei anni l'aveva preceduto nella casa del Padre.
Lui lo sapeva, se lo sentiva: l'ultima volta che è stato qui in monastero, dove spesso veniva a trovare la figlia Teodora e noi altre figliole, è stata un mese fa. Mi ha insegnato come si stucca il muro e l'ha fatto lui nelle parti più rovinate dalla muffa, con la sua consueta professionalità e puntualità. Non ha voluto che lo aiutassi, solo che lo assistessi. Gli anni passati i lavori c'è li faceva sempre lui quando veniva: abbiamo intere camere, corridoi, cancelli pitturati da lui, mastro imbianchino. Ultimamente però non se la sentiva più, non gli reggevano più le gambe, ma era contento se imparavamo: diceva sempre che basta un po' di buona volontà. Questa è l'ultima cosa che mi ha insegnato. Con quelle sue mani forti, secche e rugose, energiche e laboriose, trovava sempre qualcosa da fare: se no si annoiava. Quando sua figlia glielo chiedeva cucinava anche, ed era un mago con i piatti tipici scillitani. Non si fermava mai: sempre per i corridoi quel suo passo trascinato e concitato ad un tempo, riconoscibile tra mille. Era l'anima della festa: pur non amando le chiacchiere si dilettava in detti calabresi e danze che ha tramandato anche a noi. Tra tutti ci rimane stampata nel cuore la preghiera dialettale che recitava prima di dormire nella quale citava tutte le persone care affidandole a Dio, agli evangelisti e alla Madonna per le ore notturne. Dormiva poco, lui, ed era spesso disturbato da una tosse diventata ormai caratteristica per noi, ma il sorriso non mancava mai su quel volto che a prima vista appariva severo. Aveva la tipica fisionomia di quegli uomini che il lavoro e la vita hanno consumato, con la pelle provata dal bel sole della sua amata Scilla. Anche quando era quassù con noi, felice per la compagnia, gli mancava il suo paese, con gli amici, la casa e la tomba della moglie da curare. Era un uomo forte in tutti i sensi. Più volte nel dopo pranzo o nel pomeriggio lo vedevamo appartarsi, seduto su una seggiola in terrazzo o in piedi, a contemplare con quei suoi occhi acuti e profondi rivolti verso il Carpegna, il monte che sovrasta il nostro monastero. Guardava l’orto, ogni tanto dava qualche dritta o ci aiutava a piantare le sue zucche stravaganti, a forma di stella o di mazza o di piccole pere ornamentali. Ho un'immagine indelebile di lui nel nostro campo dietro il monastero, tra mucchi di fieno appena tagliato e lasciato a seccare. La sua figura ancora si staglia lì, e da sopra il monte ci protegge, ora che la sua dolce Teodora, la nostra cara sorella maggiore, è rimasta orfana. E noi affidiamo a quegli occhi che ora guardano Dio il nostro cammino verso quella stessa meta.