Bellezza nella Bibbia e nella Liturgia

Autore:
Riva, suor Maria Gloria
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Hans Urs Von Balthasar, grande teologo della via pulchritudinis, contemplando la Rivelazione e, in particolare, il racconto della creazione ebbe a dire: «La nostra parola iniziale si chiama bellezza». E in effetti Dio crea il mondo con dieci parole segnate dallo stupore: «E Dio vide che ogni cosa era Tov» (ovvero buona e bella). Il vocabolo Tov, come il kalòs greco, è intraducibile nelle lingue moderne. Esso esprime una pienezza di senso, una compiutezza che suppone armonia, utilità, bellezza, positività in ordine alla complessità entro cui il singolo elemento è inserito.
Apice della piramide creativa di Dio è l’uomo inteso come unità dei due, uomo e donna, e come immagine stessa di Dio. Solo dopo la creazione dell’uomo risuona accanto al vocabolo Tov, un aggettivo commovente: «E Dio vide che era cosa molto buona».
Quasi come contrappunto musicale, a dispetto del cantus firmus del Tov divino, anche il nemico dell’uomo, Satana, il tentatore,
gioca la sua carta di bellezza. Per indurre alla disobbedienza la coppia fa leva sul gusto mostrando la bellezza e la desiderabilità del frutto proibito. Così la Bibbia educa al discernimento, specificando che esiste bellezza e bellezza e che il Maligno proprio attraverso i doni divini del desiderio e del piacere conduce l’uomo all’autodistruzione. Da questa educazione scaturisce l’idea che la bellezza vera va cercata e custodita mediante un’ascesi. Ad Abramo Dio chiede di andare verso la verità di sé: «Vattene!» (ossia «Leckh Lekha») e gli chiede di camminare davanti a lui restando integro (tammim, ovvero fedele a se stesso con un cuore non doppio). Andare verso la verità di se stessi, cioè il senso profondo del proprio esistere, e camminare
nella verità è per la scrittura la bellezza suprema. Vista, però, l’incapacità dell’uomo di perseverare in tale integrità, Dio offre a Mosè altre dieci parole per rieducare il popolo al Tov (cioè al bene, al vero e al bello).
La legge, per quanto includa una promessa di bene, non risolve il problema del male e di un progetto contrapposto a quello originario. Né l’uomo può trovare in se stesso le forze per contrapporsi al fascino di una beltà che
non va secondo Dio. Perciò si fa strada nel percorso spirituale del popolo di Dio la necessità di un Goel, di un Redentore, di un Messia che salvi l’uomo dalla divisione e dalla fragilità e lo consegni alla sua bellezza originaria. Il Vangelo irrompe nella storia del popolo, con questa sorprendente notizia: la Presenza di Dio si è fatta carne. Gesù, il Cristo, compie tutte le attese di bellezza e di domanda rispetto al dolore. Egli corrisponde pienamente al canone della biblica bellezza: è Colui che restaura tutte le cose nella loro dignità originaria. Cristo è bello nei miracoli, bello nelle parole, bello, infine, nel dolore della passione. Le parabole, soprattutto, sono in certo senso lo svelarsi dell’esperienza mistica di Gesù, la rivelazione del suo sguardo capace di vedere il mondo come segno del Regno del Padre. Soprattutto sulla croce, Gesù porta il dolore e la suprema sconfitta del bello, del vero e del buono, che è la morte, entro il grande progetto di Dio, rendendo grazie, dicendo Amen al Padre, senza cedere alle lusinghe e alle opposizioni del male. Egli, uomo perfetto (tammim) e insieme Dio increato, lascia alla Chiesa la Presenza del suo Spirito e il Sacramento del suo Corpo perché la confortino nei cammini tortuosi della storia, segnati dal mistero dell’iniquità. Dalla sorgente di grazia scaturita dalla croce, la Chiesa prende coscienza che nella liturgia, e nell’arte che l’accompagna, può e deve celebrare questo Mistero per rendere gloria al Padre.
La liturgia è dunque il luogo privilegiato della via pulchritudinis che lungo i secoli custodisce intatto il Mistero, educa i credenti alla sapienza del Vangelo e rende evidente la Compagnia del Signore Gesù tutti i giorni fino alla fine del Mondo.