Dall'asfalto un grido verso l'eternità

Ha dipinto il Dies Irae, ovvero il giorno dell'ira divina, come si soleva dire un tempo, sarebbe meglio dire il giorno della rivelazione della Verità; l'ha dipinto sulla strada, il Madonnaro Kurt Wenner e ha ottenuto un effetto incredibile. Una predicazione visiva senza precedenti sul destino eterno dell'uomo.

Sono passati quasi trent'anni ma pare più di un secolo. Nel 1991, Giovanni Paolo II in visita a Mantova viene accolto, sul Sagrato di Grazie, da una pittura straordinaria. Kurt Wenner, uno di quei pittori noti come Madonnari aveva realizzato un gigantesco Giudizio Universale. Il Papa si avvicinò all'opera, prese un gessetto, si chinò sull'asfalto e la autografò. Il gesto fu una sorta di placet e, certo, venne recepito dai Madonnari in generale e in particolare da Wenner, padre di questa pittura tridimensionale, come una sorta di approvazione ecclesiastica. Vero è che la pittura di strada tridimensionale non lascia indifferenti ed è una sorta di invito alla riflessione. Una volta tanto al passante, al manager sempre in fuga, alla casalinga e allo studente è concesso scontrarsi con il fine vita e con il giudizio finale. Una fotografia del Dies Irae di Kurt Wenner ritrae un passante che si china, guardando il disegno pieno di stupore. Sullo sfondo tavolini affollati restituiscono uno scenario simile ai boulevard parigini, qualcosa di lontano dall'urgente grido del Dies Irae che si scatena improvviso qualche metro più in là.
Qui, il selciato, teatro di milione di anonimi passi, si è improvvisamente dilatato e ha rivelato un cratere in cui gli uomini cadono urlando. La scena è apocalittica e forse non piacerà a molti eppure costringe, nella sua drammaticità, a pensare al futuro, a confrontarsi con le cose ultime. Corpi nudi, muscolosi, degni del Signorelli, si aggrappano a una materia che va sgretolandosi incapace di sostenerli. Impressionano le mani e gli avambracci che escono dalla pietra spasimanti la salvezza. A ben pensarci, più che immagine del giudizio finale, è la fotografia del nostro mondo: ci attacchiamo a una materialità che non regge l'urto con la fine. E mentre l'uomo pensa a se stesso come una macchina muscolare da parcheggiare nell'eternità, la fede continua a raccontare inascoltata la risurrezione della carne e il destino eterno cui ogni uomo è chiamato in virtù dell'amore di Dio. Viviamo così fra gesti eroici, come chi combatte ogni giorno per sconfiggere malattie terminali e degenerative e chi, come la campionessa belga Marieke Vervoort, muore per eutanasia. Sospendendo un attimo il giudizio della fede, mi domando chi abbia più a cuore la dignità dell'uomo: chi pensa ad esso come a un ammasso di muscoli, che qualora cessino le funzioni cessa anche il suo valore, o chi crede valga sempre la pena di combattere perché il valore dell'uomo è molto più e va molto al di là delle su funzioni vitali? Grazie a Dio anche per molti amici non credenti la risposta è senza dubbio. L'uomo vale per sé, per quella sua energia vitale che non cessa neppure negli stati vegetativi più profondi. Io amo chiamarla anima, un'anima che nasce adulta e che, al di là della sofferenza o della inefficacia del corpo, rimane vigile e attenta a un oltre che le si schiude. Il fatto è che abbiamo bisogno della sofferenza, la sua presenza nel mondo è come il Dies Irae di Wenner: obbliga a fermarsi e a riflettere. Non l'economia, né l'efficienza dominano il mondo ma la relazione piena di amore che, talora, si esprime ancora più efficacemente quando le funzioni dell'intelligenza e delle attività umane si spengono.