Il volo impossibile

Ho appreso con sgomento la notizia di un'aggressione a un bambino ebreo di Livorno. A parte la solidarietà con tutta la comunità ebraica di Livorno che gode della mia e nostra stima e amicizia, ma non potevo non reagire di fronte all'ennesimo tentativo di infagare la vita di persone oneste e innocue che con il loro lavoro la loro intelligenza e il loro impegno contribuiscno non poco ad edificare la nostra società, per ideologismi di varia natura senza alcun fondamento nè storico nè teologico, è tanto meno umano.
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Quella cruda realtà che Hannah Arendt chiamava la banalità del male, si presenta sempre meno banale, ma con tentacoli e radici che attraversano i secoli e il tempo. È inspiegabile come delle ragazzine adolescenti possano accanirsi su un loro quasi coetaneo per ragioni senza fondamento. La prima domanda che sale al cuore, naturalmente è: quali adulti stanno dietro a queste fanciulle? Se, come spero, non la famiglia, quali educatori? C’è da temere, se noi italiani ancora non si è imparato dalla nostra storia a combattere l’antisemitismo, radice, a mio avviso, di ogni razzismo europeo. Abbiamo voluto fare un Europa unita, ma di quale unità andiamo parlando se ancora esistono tali rigurgiti razziali?
Se sul network si è unanimi circa la condanna dell’aggressione di Livorno, lo si è molto meno su altri fronti, riguardante l’Europa e le sue radici giudaico - cristiane. Come non comprendere il collegamento fra le due cose? Non illudiamoci: noi che ci diciamo cristiani, tra questa aggressione e la persecuzione contro la fede, fede giudaica o fede cristiana, è breve! Dov’è riposta la speranza per la nostra Europa, le sue radici e i suoi valori? In un laicismo che non tiene conto della storia e delle sue tragedie? In una parola, in un’Europa ideologica che poco o nulla ha a che fare con la realtà? Dovremmo seriamente riflettere su questo.
Dal canto mio, tutto ciò mi fa pensare a «l’usignolo dell’imperatore» di Hans Christian Andersen. I racconti di questo narratore danese, erano anche frutto del panorama incantevole che si snoda tra la Costa Azzurra e la Riviera ligure (poco sopra quella livornese), visitata nel 1833. A Sestri levante, dove in un muro della città si leggono le parole a lei dedicate da Andersen, si afferma che la madre di Hans avesse antiche origini liguri. La favola è nota: l’imperatore cinese, che aveva desiderato avere presso di sé un usignolo godendo del suo canto, lo abbandonò in favore di un altro usignolo, tempestato di gemme preziose e dotato di un magnifico carillon. Quest’oggetto frutto di raffinata gioielleria gli parve assai meglio del pennuto che viveva nel suo giardino. Ben presto, però il canto ripetitivo del carillon si fermò, il meccanismo si era inceppato e l’uccello smise di cantare. L’imperatore si ammalò gravemente e fu allora che rimpianse il vero usignolo, invocandolo tra le lacrime. Il ritorno del volatile risanò il malato riportandolo alla serenità.
La favola insegna che i progetti fatti a tavolino, dimentichi della realtà, hanno breve durata e portano alla morte. Del resto per noi, che siamo indignati di fronte a un simile comportamento, aggiungere violenza a violenza poco ottiene. Occorre una mitezza forte, che affermi il vero e il bene con dignità e coraggio. Mi è capitato di recente di scrivere su un’opera stupenda di Samuel Bak, ottantenne ebreo, vero e proprio poeta della memoria.
Samuel aveva poco meno di nove anni quando iniziò a dipingere. Fece stelle di David gialle, da mettere sul braccio a tutti i suoi famigliari, internati come lui nel ghetto di Vilna, in Polonia. Quando scappò dal ghetto per sfuggire alle deportazioni, si rifugiò, con il padre e la madre, in un Convento Benedettino dove sotto le ali di una monaca, suor Maria, iniziò a dipingere seriamente con carta e pittura.
Un dipinto di Bak mostra un gruppo di uccelli bloccati dentro i rami di un albero. L’immagine rimanda alla mitezza quale virtù dei forti, virtù di coloro che erediteranno la terra perché mai han cessato di desiderare il Cielo.
Il titolo dell’opera cui faccio riferimento è Volo permanente, gruppo di uccelli con un albero: due uccelli, in primo piano, sono malconci, le ali sono così irrimediabilmente bloccate dentro l’albero secco che prendere il volo pare ormai impossibile. Essi, con il loro cipiglio e il becco fiero, tradiscono aggressività, voglia di lottare. Essi sono piuttosto combattivi, desiderosi di lanciarsi in volo nonostante tutto. Ma c’è un altro uccello in fondo, a malapena lo vediamo, sta dietro; come la mitezza non fa rumore Eppure è l’uccello più in alto, il più vicino al cielo. Il suo occhio, come il suo becco, è semplice, un occhio tondo e lacrimante che ispira pace. Il suo piumaggio tradisce i colori di Israele ed è l’unico che sta vicino a rami vivi che gettano germogli. Ecco il mite che erediterà la terra! Ecco l’uccello in cui s’identifica l’artista: quello che non reagisce come gli altri, ma non si arrende, che punta lo sguardo lontano e continua a sperare, nonostante tutto. La mitezza non è, dunque, rassegnazione passiva di fronte agli eventi, ma è forza d’animo in mezzo al dolore. Samuel Bak ha vissuto la sua fanciullezza in fuga, ma l’esempio del padre e la certezza che anch’egli, come Dio aveva promesso, avrebbe ereditato una terra stabile e piena di giustizia, l’ha tenuto in vita. Sullo sfondo dell’opera di Bak si delinea il profilo di una chiesa: Dio io sono tuo (scrisse Bonhoeffer, nel Carcere di Berlino, in una delle sue poesie), questo è il cielo cui tendono gli uccelli, il volo permanete cui allude il titolo. La relazione con Dio è, per il mite, una freccia piantata nel cuore, simile al campanile di pietra dipinto all’orizzonte. Ecco: un uomo così erediterà la terra. Proprio come Samuel Bak che nel dramma della shoah ha intinto il suo pennello per raccontare al mondo la Bellezza.

L’Europa, somiglia al volatile dipinto da Samuel Bak, è tenuta insieme da una moneta (fragile), da leggi scritte a colpi di martello e chiodi, non reggerà l’urto di fronte a chi, invece, resta tenacemente radicato nella sua storia. Dimenticare le radici giudaico-cristiane, dimenticare soprattutto di difenderle, insegnarle, di educare i figli a partire da questo grande patrimonio, non gioverà all’Europa. Come scrisse Dawson: «Una società che ha perduto la sua religione è destinata presto o tardi a perdere la sua cultura» e, aggiungo io, a perire sotto i colpi impazziti del primo terrorismo di turno.