È questo l'uomo?

Nella contemplazione del volto dolente del Salvatore, si vede l'Uomo, quello vero. Quello che ci salva dall'immagine abbruttita di un uomo cui, purtroppo, ci stiamo abituando.
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Caravaggio, Ecce Homo, Museo di Vienna

È ancora nella nostra memoria quel titolo, così vero nella sua domanda grave di senso a fronte di certi tormentati panorami della storia umana, è ancora vivo - dicevo - il ricordo del titolo di un famoso libro di Primo Levi: Se questo è un uomo.
Una constatazione gonfia di domanda oppure, se si preferisce, una domanda amara in cui già cova implicita la risposta desolata: talvolta sì, purtroppo, questo è un uomo. Primo parlava del dramma della Shoah, ma l’affermazione si applica via via ai vari Calvari della storia, di grandi proporzioni come i Gulag, come le pulizie etniche passate e recenti, o di piccole proporzioni come le morti “dolci” o gli stermini domestici realizzati da pillole del “giorno dopo”o, ancora, profanazioni del corpo innocente dei bambini.
E nel panorama culturale e politico di questa nostra Italia, in cui i cittadini si apprestano per l’ennesima volta a pronunciarsi liberamente e politicamente alle urne, in un siffatto panorama vien proprio da chiedersi: ma questo è l’uomo?

Come suonano diverse, allora, e fondanti le parole di quell’antico Pilato che di fronte al rivelarsi improvviso di un Uomo Vero, di un Uomo Compiuto ebbe a dire: Ecce Homo!

Sì, anche per noi oggi: ecco l’uomo! quello vero, quello che non dimentica la capacità inaudita di violenza insita nell’uomo, il cinismo aberrante di fronte alla vita e alla morte, quello che pure continua a sperare e ad indicare una meta «altra» diversa, dove finalmente si veda l’uomo!
Già Giovanni Paolo II scriveva nella Rosarium Virginis Mariae: «Nell’abiezione della Passione è rivelato non soltanto l’amore di Dio. Ma il senso stesso dell’uomo. Ecce Homo: chi vuol conoscere l’uomo deve sapere riconoscere il senso, la radice e il compimento in Cristo, Dio che si abbassa per amore sino alla morte, e alla morte di croce(Fil2,8)» (R.V.M. 22).
Chi vuol conoscere l’uomo deve partire da qui. Non c’è scampo, anzi non c’è altra via percorribile dalla speranza che non passi di qui. Lo ha detto l’arte di secoli che instancabilmente ha scandagliato i moti dell’anima del Salvatore, coronato di spine ed esposto al vituperio, per comprendere qualcosa di più dell’umanità. L’Ecce homo ha affascinato e commosso intere generazioni di artisti, da Antonello da Messina fino a Rouault.

Una di queste è l’opera bellissima del Caravaggio, oggi al museo di Vienna, un Ecce Homo stretto dentro i confini di un quadrato: la forma della violenza, come esprime l’italiano s-quarta-re, oppure modi di dire familiari come «andare a dirne quattro».
Dentro a questo riquadro oscuro, una luce diffusa e battente entra dall’alto a sinistra e rivela la scena: due flagellatori, canna in mano, premono con violenza una corona di spine sul capo di Gesù che docile come un giunco si piega.
I tre corpi si muovono nello spazio creando un gioco di diagonali che orienta lo sguardo dell’osservatore verso Cristo, verso il suo volto sofferente, ma pacificato e mite. Egli pure impugna una canna, che certo gli è stata consegnata dai suoi aguzzini quale scettro beffardo per un re di burla, ma Cristo la regge non già come insegna regale, bensì la porge ai flagellatori quale segno di piena accoglienza del gratuito supplizio.
«Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26), dirà il Risorto ai pellegrini di Emmaus. In quella canna inclinata tra le mani del Signore del mondo c’è inscritta tutta la “necessità” di quell’ora. Questa canna conferisce profondità alla scena e silenziosamente addita la valenza di quel dolore. Un dolore che supera i confini dell’ora nella quale si consuma e si carica del dolore di tutti i tempi e di tutte le generazioni.

Le piaghe del divino Condannato sono le nostre piaghe, eppure Caravaggio non ha segnato il corpo di Cristo neppure con una goccia di sangue. A differenza di ciò che realmente fu e che opere recenti (come il celebre film The Passion) hanno messo in evidenza, qui il corpo del Signore Gesù ha la bellezza e lo splendore della Carne Risorta. Il sangue però c’è, ha intriso tutto il manto che avvolge il corpo del Signore. È il fiume di sangue versato lungo i secoli dalla cattiveria del male e dal peccato. È il sangue che grida dalla terra fin dal tempo di Abele e che Cristo ha preso su di sé. Ecce homo, dirà tra breve Pilato e, di fatto, fra i tre, Cristo è l’uomo più uomo.
Dei due flagellatori uno indossa teli annodati sul busto e sul capo, l’altro ha il volto coperto dal suo stesso gesto di violenza: essi sono l’immagine del male che lega l’uomo e lo schiavizza, che lo abbruttisce fino a togliergli dignità e identità.
Ma c’è un terzo uomo, un cavaliere. Caravaggio l’ha vestito come i suoi contemporanei. Se non fosse per lo splendido piumaggio che gli adorna il copricapo e il colletto bianco che sporge dall’armatura, a mala pena lo si distinguerebbe dal cono d’ombra in cui è confinato. Si appoggia pensoso a un parapetto e assiste al supplizio con sentimenti indecifrabili.
Suggestivo e forte è il contrasto tra il metallo nero dell’armatura del cavaliere e il candore verginale della carne di Cristo.
Con un semplice, ma sapiente accostamento Caravaggio ci dà la misura dell’ambiguità dell’uomo di fronte al male e della solare chiarezza della verità dell’Uomo Dio. Là c’è un uomo armato, ma indifferente di fronte all’ingiustizia, qui c’è il giusto nudo e inerme di fronte ai suoi torturatori.
Il cavaliere che pure non partecipa attivamente alla tortura è, nella sua indifferenza, colpevole tanto quanto gli esecutori. Il male ha scatenato le sue forze e l’uomo è rimasto spettatore muto. Caravaggio denuncia - anche certo per esperienza diretta vista la sua esistenza tormentata - come le conseguenze del male non si possano prevedere. Una volta dato libero sfogo alle proprie passioni s’imbocca una via, quella della violenza e della morte, che non ha sbocco se non dentro alla logica del perdono e dell’amore che Cristo ha manifestato proprio nel corso della sua passione e morte.
Nel cavaliere, uomo dell’oggi di Caravaggio, siamo rappresentati tutti noi. Dal parapetto della storia anche noi possiamo guardare la scena crudele e domandarci quale uomo portiamo dentro di noi. L’uomo schiavo del peccato? L’uomo senza volto che si sottrae, volentieri, dalle proprie responsabilità? Oppure l’uomo redento da Cristo capace di amare come lui, fino alla fine? Ritorna di nuovo alla mente l’antico di Pilato con la sua domanda: Quid est veritas? (Che cos’è la verità? Una domanda nel cui anagramma i Medioevali scorgevano già la risposta: est vir qui adest! È l’uomo davanti a te:
Sì è davvero Cristo l’uomo! E la contemplazione del suo volto dolente deve portarci a crescere nell’amore, deve condurci, come scriveva ancora Giovanni Paolo II, a contemplare il Mistero del dolore Innocente ripercorrendo le tappe della nostra vita per cogliere in Cristo la verità sull’uomo (cfr. RVM 25).
La Settimana Santa dovrebbe sorprenderci con in mano più spesso la corona, con il silenzio negli occhi e nella mente per prepararci a dire, a tempo opportuno, chi è per noi l’uomo.