La vocazione in un canto
Nella terza domenica di Pasqua la Chiesa ricorda il buon pastore e invita a pregare per le vocazioni sacerdotale e religiose, ma anche per la vocazione alla famiglia, oggi sempre più compromessa. Suor Maria Teodora proprio partendo da uncanto ricorda chi l'ha generata alla vita e alla fede.- Autore:
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A volte ci sono dei canti che la liturgia ci permette di cantare le cui parole vanno dritte al cuore. Sembrano canti scritte per la tua storia. In realtà raccontano la storia di ogni uomo, contengono domande che svelano l’essere creatura innanzi al Mistero. Cosi questo canto, il cui titolo è proprio Il Mistero, un giorno mentre percorrevo le strade del Montefeltro e alla vigilia del mio noviziato mi è risuonato dentro. D’un tratto mi sono sentita descritta da quelle parole. Ogni volta che le ascolto mi commuovo e soprattutto adesso che quel ventre di donna che mi ha dato la vita non c’è più, so che quel ventre, ancor più di prima, si fa garante della mia vocazione.
Ho scritto così le mie riflessioni rileggendo le parole del canto in quelle del cantore biblico per eccellenza, Davide nel Salmo 138.
Con occhi semplici voglio guardare, della mia vita svelarsi il Mistero:
là dove nasce profonda l'aurora, d'una esistenza chiamata al Tuo amore.
È lo stesso sguardo del salmista, che nel salmo 138, indica il modo di guardarsi senza necessariamente ricorrere alla psicoanalisi come spesso si usa fare oggi.
Guardarsi da fuori e con lo sguardo semplice del bambino per scoprirsi amati da sempre.
Il punto di partenza è credere in uno che è tuo Creatore e tuo Redentore.
In quanto creatore è uno che sa tutto di te; infatti, il titolo dato al salmo è: omaggio a chi sa tutto.
In quanto redentore è lì sempre presente dove tu sei: se salgo in cielo là tu sei , se scendo agli inferi eccoti. Non ti lascia mai perché ti vuole salvare. È il Go’el.
Davide canta una vita che si svela giorno dopo giorno, fin dall’atto del concepimento. Il mistero della vita, infatti, è racchiuso in quel seme che la genetica moderna non riconosce come essere vivente.
M'hai conosciuto da secoli eterni, m'hai costruito in un ventre di donna
ed hai parlato da sempre al mio cuore, perché sapessi ascoltar la Tua voce.
Sapersi amati, voluti, conosciuti da sempre; avere la coscienza che fin dal primo istante si è fatti da un altro, salva da quell’opprimente solitudine strada sicura verso la depressione. Grido che rimane muto perché nessuno ascolta, visto che ognuno è annichilito nel proprio.
L’immagine che subito rivedo è quella dell’urlo di Munch. Un uomo solo, fuori dalla consapevolezza di essere parte di un tutto che ti comprende; ignaro dal sapersi accompagnato da un mistero che non si vede ma ti avvolge. Così dice il salmista: alle spalle e di fronte tu mi circondi e poni su di me la tua mano.
Sapere che la vita entra nel grembo di una donna, tua madre, perché tu sia, ti fa essere presente alla creazione del mondo.
In una società che annulla l’identità, analogamente o peggio di un dichiarato regime comunista, poter dire Io sono è un modo per rimettere Dio al centro del mondo, del pensiero, del vissuto, dei rapporti.
Chi non crede può obbiettare dicendo che la vita è un fatto di laboratorio. Ma chi ha dato il soffio vitale a quel seme?
Guardo la terra e guardo le stelle e guardo il seme caduto nel campo,
sento che tutto si agita e freme, mentre il Tuo regno, Signore, già viene.
Nel seme vi è il regno. Forse è difficile oggi sperimentare nelle nostre città come un seme, magari trasportato dal vento, possa fecondare la terra e generare la vita. Tuttavia questa è la legge della natura e lo è anche dell’uomo. Io sono frutto di un seme intessuto nella profondità della terra; e come una pianta ho le radici fortemente attaccate ad essa. Nessuna pianta altrimenti potrebbe vivere.
Se una pianta viene sradicata dalla madre terra, paradigma di un rapporto madre-figlio, stroncato dalla morte, allora la pianta dev’essere trapiantata in una nuova terra e trovare un nuovo humus. La pianta capisce che quella nuova terra è la terra promessa, luogo dove il Mistero comincia a svelarsi.
In quella terra vi è una nuova parentela, come si canta nel ritornello. Solo chi apre il cuore al compimento della volontà di Dio, attraverso Gesù, potrà conoscere relazioni nuove.
Se vedo l'uomo ancora soffrire, se il mondo intero nell'odio si spezza,
io so che é solo il travaglio del parto d'un uomo nuovo che nasce alla vita.
Quell’uomo sul ponte, nel quadro di Munch, è un uomo senza relazioni. Dice una drammaticità che però ci fa somiglianti nella consapevolezza della nostra finitudine di fronte all’inconoscibile cielo. Si sta comunque di fronte alla vita con drammaticità per due motivi. Il primo perché, come dice sant’Agostino, il cuore dell’uomo non trova riposo se non in Dio per cui la vita è una continua ricerca di Lui; il secondo motivo è inevitabilmente legato al primo. Il cammino di ricerca è paragonabile al travaglio del parto. Siamo chiamati a partorire il nostro uomo nuovo alla vera vita, lì dove sarà il nostro riposo.
La drammaticità dell’uomo di Munch, però, è senza speranza perché il suo cuore è sordo; quella del cristiano è una tensione all’infinito perché i suoi occhi sono semplici. La speranza è dentro il Mistero; è la mano che ne svela il volto.