Rorate coeli de super

Un bellissimo commento a un'antica preghiera che ci ha regalato il nostro amico Michele
Autore:
Pompei, Michele
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Il canto in assoluto più bello di questo periodo liturgico: è il Rorate.
Nessun altro canto esprime come questo, secondo me, il significato dell’attesa del Natale e prepara perciò a comprendere la sua forza di novità e di cambiamento per la vita personale e del mondo.

Rorate coeli desuper
et nubes pluant Iustum.

Il ritornello è il grido del povero, del mendicante. Ed è un grido già così pieno della certezza che il Signore viene, perdona e redime. Nel deserto arido della nostra dimenticanza, scenda come rugiada e come pioggia di vita la Vita vera, che sola può far rifiorire il deserto della nostra umanità ferita e sfinita per la sua debolezza mortale. Da questo infatti si vede che Cristo salva ed è perciò presenza reale nella vita di un uomo: dal fatto che la vita rinasce, che l’umanità rifiorisce, che la mia ragione e la mia affezione sono spalancate e potenziate.

La coscienza del peccato, del proprio limite, il dolore per i propri tradimenti domina le prime due strofe del canto. Mi colpisce e nello stesso tempo mi dà un motivo di vera speranza il fatto che la Chiesa non cerchi di censurare l’enormità del male, la sterminata povertà dei nostri mezzi e della nostra condizione, ma che anzi li riconosca con sincera umiltà e gridi al Signore di avere pietà, di perdonare:
Ne irascaris Domine,
ne ultra memineris iniquitatis.
Ecce,civitas Sancti
facta est deserta,
Sion deserta facta est.
Jerusalem desolata est,
domus sanctificationis Tuae
et gloriae Tuae,
ubi laudaverunt Te
patres nostri.


Non si tratta del male del mondo, del male degli altri, no. Si parla del mio e del nostro male, di noi chiamati, di noi figli, del male della “Civitas Sancti”, che è immagine della mia e nostra umanità. Devastata, rasa al suolo, resa arida e deserta dal rifiuto e dalla dimenticanza, perché refrattaria al Suo amore, ribelle. La Sua casa, la Sua stessa casa sono io, Signore, io, che Tu, nella Tua bontà, ha chiamato ed eletto. Questa casa è desolata, come desolato e smarrito è il mio cuore senza di Te, o Signore. Non il mondo, ma la Tua santa dimora, Gerusalemme, è fatta deserta, è desolata. È terribile. La Chiesa non censura, non nega, non chiude gli occhi di fronte al male, nemmeno al male che invade i suoi figli.
“Ubi laudaverunt Te patres nostri”: dove ti hanno lodato i nostri padri e dove noi ora ti abbiamo dimenticato e tradito. Vale a dire: ciò che è stato vero ieri, un’ora fa’, una settimana fa’, un mese fa’ non basta a sostenermi ora, in questo istante, se l’avvenimento che mi colpì allora non lo riconosco vivo ora, adesso.

Peccavimus, et facti sumus
tamquam immundus nos.
et cecidimus,
quasi folium universi.


Abbiamo creduto di innalzarci con la nostra superbia, abbiamo creduto di affermare noi stessi sopra tutto e invece, con ammissione che più realisticamente amara e sincera non si può: «cecidimus», siamo caduti, crollati come una foglia, una delle innumerevoli foglie del mondo, anonima, senza identità, senza volto. Trascinati via nel vortice dei nostri pensieri, nel nulla dei nostri idoli. Perché ci siamo staccati dal ramo, da Te, dove scorre la vita.
Il vento del nostro orgoglio e della nostra falsa autonomia ci strappa via e ci conduce lontano da Te, nelle tenebre:
Et iniquitates nostrae
quasi ventus abstulerunt nos
.

Le parole che seguono sono parole terribili, drammatiche, che, pure, la Chiesa non rifiuta di pronunciare:
Abscondisti faciem tuam a nobis
hai coperto il Tuo volto, inorridito dalle nostre iniquità, lo hai nascosto al nostro sguardo.
Et allisisti nos
in manu iniquitatis nostrae.
per amore alla mia libertà mi lasci sobbalzare nella tempesta.

Per la vergogna di me non riesco nemmeno ad alzare lo sguardo, il mio male sembra definirmi e tenermi inesorabilmente prigioniero. Ma in questo abisso di oscurità e di male, inspiegabilmente, in modo anzi paradossale, si leva un grido, un grido che niente farebbe supporre possibile, che, anzi, tutta l’evidenza schiacciante di una situazione contraria lascerebbe intendere assolutamente impossibile, addirittura impensabile. E invece:
Vide, Domine,
afflictionem populi Tui
et mitte Quem missurus es:
emitte Agnum dominatorem terrae,
de petra deserti ad montem filiae Sion:
ut auferat Ipse
jugum captivitatis nostrae.


Com’è possibile innalzare questo grido, avanzare questa richiesta inaudita? Com’è possibile se non perché Dio stesso, Gesù, il Dio incarnato, ha preso su di sé il giogo della nostra schiavitù? Se non perché ha preso Lui l’iniziativa nei confronti del suo popolo, quindi anche di me, avendo pietà del mio niente? Solo la Sua iniziativa rende possibile la richiesta di perdono da parte del suo popolo, richiesta che diventa grido mio. È perché il Signore è venuto e ha già vinto il male che posso gridare a Lui: “vieni, non tardare”. L’avvenimento che è entrato nel mondo è più forte di tutto il male del mondo, è più forte di tutto il mio male, ma deve investire me, deve riguardare me, deve diventare “mio”, deve cioè trovare accoglienza in me. E il Natale ci ricorda il riaccadere continuo dell’avvenimento della sua presenza e ci chiede continuamente di riconoscerla e di riaccoglierla.

Che consolazione è la risposta del Signore, che commozione desta se è riconosciuta come risposta reale ad un bisogno reale:
Consolamini,
consolamini popule meus.

Sembra quasi di vedere un padre o una madre che si chinano con infinito amore sul figlio che amano e quasi si rimproverano di averlo anche solo per un attimo abbandonato ai suoi capricci. Su quel figlio riottoso e testardo nel rivendicare la propria presunta indipendenza e autosufficienza, ma che ora è lì, col viso cosparso di pianto, che si scioglie a quell’abbraccio che lo fa rinascere e contro il quale non può più opporre nessuna obiezione, nessuno sbaglio commesso.

Cito veniet salus tua,
quare moerore consumeris?
Quia innovavit te dolor?

Non c’è più tempo per l’amarezza, per il rimorso dell’orgoglio ferito a causa del peccato.

Salvabo te, noli timere.
Ego, enim, sum Dominus Deus tuus,
Sanctus Israel, Redemptor tuus.

“Ti salverò, non temere”: ma quel futuro è già un presente, è già iniziato, è già accaduto e continua ad accadere. Ha già vinto, ha già sconfitto tutto il mio male e tutto il male del mondo, presente e futuro.
È in Lui la nostra sicurezza e in Lui la nostra pace, pur dentro la lotta, che non è tolta.
Il dolore e l’amarezza lasciano il posto alla certezza che Lui viene a salvarmi e l’attesa è già colma della pace del suo abbraccio amoroso e della gioia perché la salvezza è presente.
“Non Ti cercherei – non Ti attenderei – se Tu non mi avessi già trovato”.