Una donna mussulmana, un amico cristiano e il crocifisso
da Mondo e Missione e da Enrico Benedetti- Autore:
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Si fa un gran parlare del crocifisso, dopo la triste disposizione della CE. Triste perché disincarnata, triste perché incurante di secoli di storia e della natura stessa di certi “segni”. Abbiamo perso la mentalità simbolica dell’esistenza, noi adoratrici lo affermiamo spesso. L’abbiamo persa e non pare che in molti ci sia il desiderio di ritrovarla. È bello che accada allora di leggere testimonianze come queste, così poco inclini al “politicamente corretto” e così vicini al reale.
Grazie Randa Ghazy, grazie Enrico che ci ricordi questo straordinario passo di Chesterton:
Randa Ghazy, scrittrice, mussulmana:
«Uno dei ricordi più belli della mia infanzia e prima adolescenza è don Bruno. Frequentavo l’oratorio feriale con il mio fratellino, e le suore ci trattavano con una gentilezza e premurosità impareggiabili.
Ma don Bruno, lui ci faceva davvero ridere. Arrivava il momento della Messa, e noi due ci rifugiavamo al bar a giocare a calcio balilla e a strafogarci di caramelle. Don Bruno, ogni giorno, ci chiedeva di aggregarci a tutti gli altri bambini che andavano in chiesa. E noi declinavamo, con un po’ di vergogna. Un giorno ci disse: «E perché non venite e non dite le vostre preghierine?». E così fu. A Messa, io e mio fratello recitammo sommessamente le sure del Corano. Sicché il crocifisso, in ogni classe che ricordo (dalle elementari fino al liceo) è sempre stato per me un simbolo rassicurante, una proiezione della grandezza di cuore di Cristo e, in piccolo, di don Bruno.
Appoggio e incoraggio ogni possibile dibattito tra cittadini musulmani e cristiani, ogni discussione sulla laicità dello Stato, ma nel rispetto dei grandi modelli di umiltà che ognuno può trovare nel suo passato e nel suo vissuto. Nel rispetto reciproco, quindi.
Spengo la televisione, per non sentire le aggressioni verbali continue, ripenso a don Bruno, e mi viene da sorridere, pensando a quei due bambinetti musulmani che si guardavano intorno, in quella bella chiesa. Nostalgia, quasi, degli anni Novanta».
Enrico:
Sto frequentando un corso biblico sul Libro della Genesi. Per non trovarmi impreparato all’ultimo incontro che abbiamo avuto ho pensato di documentarmi su alcuni Documenti del Magistero della Chiesa e, nella prefazione del Card. Dionigi Tettamanzi (allora arcivescovo di Genova) all’Enciclica di Papa Giovanni Paolo II Fides et Ratio, mi sono imbattuto nella seguente citazione, che, in considerazione di quanto sta accadendo ai giorni nostri, mi sembra di grande attualità. Ed eravamo nel 1998, quindi in tempi non ancora sospetti, anche se in passato c’era già stata qualche avvisaglia:
In una celebre opera, La sfera e la croce, Gilbert Keith Chesterton immagina un colloquio tra due personaggi che ben si addice al testo dell’ultima Enciclica di Giovanni Paolo Il.
«Come ti stavo dicendo» seguitò Michele, «anche quell’uomo aveva adottato l’opinione che il segno del cristianesimo fosse un simbolo di barbarie e di irragionevolezza. È una storia assai interessante. Ed è una perfetta allegoria di ciò che accade ai razionalisti come te. Egli cominciò naturalmente, col bandire il crocifisso da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri. Diceva, come tu dici, che era una forma arbitraria e fantastica, una mostruosità; e che la si amava soltanto perché era paradossale. Poi diventò ancora più furioso, ancora più eccentrico; e avrebbe voluto abbattere le croci che si innalzavano lungo le strade del suo paese, che era un paese cattolico romano. Finalmente s’arrampicò sopra il campanile di una chiesa, ne strappò la croce e l’agitò nell’aria, in un tragico soliloquio sotto le stelle. Una sera d’ estate mentre ritornava lungo il viale, a casa sua, il demone della sua follia lo ghermì di botto gettandolo in quel delirio che trasfigura il mondo agli occhi dell’insensato. S’era fermato un momento, fumando la sua pipa di fronte a una lunghissima palizzata: e fu allora che i suoi occhi si spalancarono improvvisamente. Non brillava una luce, non si muoveva una foglia; ma egli credette di vedere, come in un fulmineo cambiamento di scena, la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci legate l’una all’altra, su per la collina, giù per la valle. Allora, facendo volteggiare nell’aria il suo pesante bastone, egli mosse contro la palizzata come contro una schiera di nemici. E, per quanto era lunga la strada, spezzò, strappo, sradicò tutte quelle assi che incontrava sul suo cammino. Egli odiava la croce: ed ogni palo era per lui una croce. Quando arrivò a casa, era pazzo da legare. Si lasciò cadere sopra una sedia, ma rimbalzò subito in piedi perché sul pavimento scorgeva l’intollerabile immagine. Si buttò sopra un letto; ma tutte le cose che lo circondavano avevano ormai l’aspetto del simbolo maledetto. Distrusse tutti i suoi mobili, appiccò il fuoco alla casa, perché anche questa era ormai fatta di croci: e l’indomani lo trovarono nel fiume.”
Lucifero guardò il vecchio monaco mordendosi le labbra. «È vera questa storia?»
«No!» disse Michele. «È una parabola: la parabola di voi tutti razionalisti e di te stesso. Cominciate con lo spezzare la croce; ma finite col distruggere il mondo abitabile».
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