Il Credo fra Bibbia e arte: Gesù Cristo

Il viaggio dentro al Credo continua con tre opere di grande suggestione, la Trinità di Lotto, Le litanie di Bergagna, tre opere che illustrano il Mistero del secondo articolo: Gesù Cristo, unico Figlio di Dio, nostro Signore.
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Il secondo articolo del credo è intimamente legato al primo. Nel Mistero del Padre c’è il Figlio e non si conosce il Padre se il Figlio non lo rivela, perché nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.
Forse per questo Michelangelo, negli affreschi della Cappella Sistina si scosta dalla tradizione e realizza il volto di Gesù nel Giudizio Universale, non sul modello del mandylion o della Sacra Sindone, con la barba bipartita e i capelli lunghi, ma con il volto di un giovane imberbe, lo stesso volto realizzato nei primi affreschi, quello di Adamo nel momento della creazione. In quella creatura di Dio, che è l’uomo, in quel primo Adamo, c’era già l’immagine dell’ultimo Adamo di quel Figlio generato e non creato, come è definito dal credo niceno-costantinopolitano, che è Gesù.

Un’immagine straordinaria di questo Figlio che è un uomo di carne e sangue, di nome Gesù, ma che è Dio da Dio, unica sostanza col Padre e quindi unico vero Figlio di Dio e che, insieme, è per noi il Cristo cioè il Messia il Salvatore, Colui che ci ha riconciliati una volta per sempre con il Padre e con quel Cielo che avevamo perduto, la realizza Lorenzo Lotto nella Pala della Trinità presente nella sacrestia della chiesa di S. Alessandro della croce di Lorenzo Lotto (1523 - 1524), a Bergamo. Un olio su tela dalle dimensioni significative (cm 170 x 115) che ci offre un immagine inedita della Trinità.

Nel cielo luminoso ma “denso” di luce solare si staglia la sagoma di un’altra Luce. Mai visto nella storia dell’arte un volto del Padre così! Dio Padre è una sagoma di luce da cui proviene il Figlio che appare in quel fulgore con tutta l’evidenza della sua umanità. Egli è luce da luce, ma possiede un volto umano, un nome: Gesù, Dio salva.
Il Padre tiene le mani levate al Cielo, il Figlio le braccia distese verso la terra: un abbraccio universale che lega cielo e terra, il luogo di Dio e il luogo dell’uomo e in mezzo c’è il Figlio che è appunto Cristo e Signore.
A bene vedere le braccia del Padre e del Figlio formano un quadrato, un quadrato in cui è compresa anche la colomba dello Spirito Santo, il quadrato è la forma geometrica che simboleggia l’uomo, la dimensione terrestre con le sue coordinate spaziali quadripartite: nord, sud, est ovest. La Trinità abbraccia tutta la creazione e lo fa con mani d’uomo.

Dell’uomo Dio, Cristo Gesù.
Non solo le braccia, ma anche i piedi del Figlio raccontano la sua divinità, Egli poggia su un doppio fascio di luce, una sorta di arcobaleno che rimanda all’alleanza più antica di Dio con l’umanità, quella che precede Abramo, quella noachica (di Noè). Quel doppio arco di luce spiega al popolo che quel Gesù è il Cristo, cioè il Messia atteso dall’umanità fin dall’inizio della rivelazione; quel Messia capace di liberare l’uomo da una carne incline al peccato e alla disobbedienza a Dio.
Gesù ha, infatti, il manto rosso della passione e dell’umanità, perché è stato obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di croce e ha il manto blu della risurrezione e della divinità, perché Dio lo ha glorificato con quella gloria che Egli aveva fin dalla fondazione del mondo. Sopra il suo capo libra lo Spirito Santo, cioè lo Spirito rimane su di lui come attesta l'evangelista Giovanni.
E Gesù ci guarda, guarda proprio noi che siamo idealmente lì, nella Sacrestia di Sant’Alessandro in Bergamo, in attesa della celebrazione eucaristica. Cristo ci guarda con gli occhi compassionevoli di chi comprende la fragilità dell’uomo, ma nello stesso tempo conosce e vuole rivelare l’onnipotenza d’amore del Padre. Perciò le sue braccia si protendono verso il basso verso quel paesaggio minuscolo ma dettagliato che riposa placidamente sotto il fulgore di quel Cielo. Qui, come non mai nella Storia dell’arte, la Trinità non è fotografata solo nell’alto del suo Cielo ma si staglia sopra un paesaggio vivo e reale. Umano.
Non a caso infatti, lì sotto ci siamo noi, come pecore minuscole e c’è il pastore. Forse questo Pastore così piccolo è davvero lo stesso Pastore che campeggia nel cielo. Quei piedi che ora calcano l'arco di luce sono gli stessi piedi che calcarono l'opacità della terra ed è per questo che noi possiamo dire che Gesù, il Cristo, il Kyrios - il Signore - è nostro Signore. È Signore della nostra vita e della nostra umanità, Signore perché Dio, figlio Unigenito del Padre, ma è «nostro» perché vero uomo, Figlio dell'uomo.
Dire, dunque che Gesù, il Gesù di Nazareth, è Figlio Unigenito del Padre ed è il Cristo e il Signore nostro equivale dire che la nostra natura è stata ammessa alla comunione divina. Per questo, nell'opera di Lotto, il quadrato formato dalle mani del Padre e del Figlio è contenuto nel cerchio di luce che simboleggia il Cielo, perché la natura umana, grazie a Gesù Cristo Unico Figlio di Dio e nostro Signore, è entrata nell'eternità di Dio.

Unigenito
Questo figlio di Dio è proprio l’Unigenito, come dice la versione del Credo niceno costantinopolitana, nato dal Padre prima di tutti i secoli, generato e non creato.
Il fondamento biblico di questa dottrina, viene fatto risalire al vocabolo biblico che esprime la parola uno.
Ci sono due modi per dire uno o unico in ebraico: yachid o echad.
Echad è il termine usato nello shemà Israel: Ascolta Israele il Signore è Dio, il Signore è Uno (אֶחָד echàd)! (Dt 06:04).

Il termine echad viene usato spesso quando si sottintende una unità composita.
Ad esempio: E fu sera e fu mattina giorno uno (yôm ‘ehâd), da Gn 1:5. Qui il giorno è unità composta da due elementi: il dì e la notte.
Allo stesso modo, sempre nel libro della Genesi ma al capitolo successivo (Gn 2:24), si dice dell’uomo e della donna che saranno “una carne sola”; la parola usata è sempre אֶחָד (echàd) e ancora si esprime una unità (la carne) composta da due elementi (maschio e femmina).

L'altro termine, invece, esprime l'idea dell'unità intesa come unicità, assoluta e indivisibile. unica, appunto. L'aggettivo prevalentemente usato è yahîd [יְחִיד], che viene generalmente tradotto con ‘unico’”.

L'esempio più noto è quello riguardante Isacco, il figlio unico di Abramo. In Genesi 22:2, Dio dice ad Abramo di prendere suo figlio, il suo unico figlio (יְחִיד yachìd), che ami, Isacco. O ancora quando parlando del messianica si dirà faranno il lutto come si fa lutto per un figlio unico . Nell’ebraico si ha יְחִיד (yachìd), “unico”.

È chiaro allora come la prima comunità giudaico-cristiana di fronte alla rivelazione sconvolgente del Messia, figlio di Dio che rivelando il Padre apre lo squarcio sulla verità del Dio Trino ed Unico, rilegge questi due vocaboli ricorrenti nella Sacra Scrittura nella loro profondità mistica: Dio è unico nel senso di echad, nasconde in sé il Mistero della Trinità. Ma il Cristo è Figlio unico nel senso di yachid, cioè dell’unigenito Figlio di Dio generato e non creato.

Un pittore che ha dedicato alcuni bozzetti proprio all’illustrazione del Credo è Ernesto Bergagna, nato nel1902 in provincia di Udine, fu professore al Beato Angelico di Milano dove si custodiscono diverse sue opere, e morì nella medesima Scuola il 17 settembre del 1991.
Per la chiesa di San Vitale martire, in Masano (BG), realizzò l’illustrazione del Credo da cui traspare la profonda religiosità del pittore. Anche in altre sue opere, e in particolare nel ciclo delle Litanie custodite appunto nella Scuola del Beato Angelico a Milano e realizzate negli anni 1930-1950, offre degli spunti straordinari per commentare questa fondamentale verità della fede.

Nostro Signore
Cristo unigenito figlio di Dio è diventato per pura grazia “nostro”. Dentro la determinazione “nostro” c’è tutto lo spessore dell’incarnazione.
Per questo impressiona paragonare questa verità di Cristo Signore nostro, con la tavola del Bergagna che illustra l’invocazione Christe exaudi nos: Cristo esaudiscici!

L’ambiente biblico del primo testamento è quello suggerito da Isaia e che la Chiesa legge proprio a ridosso del Natale: Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Lo squarcio che si forma nel cielo è quello della croce. Anche il Cristo, che appare splendente in questo fulgore, ha le braccia aperte in croce. La sua signoria si manifesta pienamente sulla croce ed è appunto sulla croce che egli però si rivela come uno di noi. Condannato a morte. Come ogni uomo. Egli proprio sulla croce prende su di sé la maledizione massima che ha fatto seguito al peccato: la condanna a morte.
Cristo ha un volto umano e sereno le palme delle mani sono rivolte verso l’alto e sembrano voler imbrigliare la luce che i cieli sprigionano bagnando il profilo degli angeli: miriadi di angeli lo servivano, dice l’apocalisse.
L’altro ambiente biblico in cui Bergagna questa sua invocazione è, appunto, quello dell’apocalisse e della trasfigurazione.
La luce che idealmente passa attraverso il corpo di Cristo raggiunge la terra. Cinque raggi di luce, il numero delle piaghe del Redentore, collegano idealmente il mondo di Dio con il mondo degli uomini.

Sotto al Cristo, infatti si vedono prostrati i suoi discepoli. Sono gli apostoli, ma non sono solo tre, come nella trasfigurazione, sono dodici. Dodici come i vegliardi dell’Apocalisse. Il numero dodici dice la totalità dell’umanità. Infatti a ben guardare dentro la sagoma di quei dodici è possibile riconoscere le caratteristiche delle diverse razze presenti sulla terra. Lo si evince soprattutto dai tre copricapi bianchi che evocano la foggia araba e orientale.
I colori degli abiti di questi dodici personaggi non sono casuali.
Quattro indossano tuniche color terra di Siena, quattro tuniche verdi, tre tuniche rosse e uno, in primo piano una tunica violacea.
Negli abiti si individua il modo di stare davanti a questo Signore, il modo con cui ciascuno di noi lo riconosce come “suo Signore”.
Quelli con l’abito color terra simboleggiano gli anawim, i poveri di spirito, quelli cioè che abbandonano le loro sicurezze umane, i loro percorsi religiosi, e adorano Cristo con umiltà. Accettando la rivelazione nella sua dimensione più scandalosa quella dell’Incarnazione. Anche il copricapo bianco che la maggior parte di questi indossa esprime la purezza dei pensieri. Una mente sgombra di sé per accogliere la rivelazione che viene.
Quelli con l’abito verde sono i miti, che erediteranno la terra. Questo sono gli speranzosi. Coloro cioè che vivono il mistero nella semplicità del loro quotidiano. Sono nati dentro questa grazia e la accolgono e la vivono con tutta la loro forza. Perciò sono fecondi ed ereditano la terra. Queste due sono le vie più diffuse, forse per questo, i personaggi che inossano tali colori sono più numerosi: 4 e 4. Tre, invece sono quelli che vestono di rosso. Essi, che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello, sono i martiri.
L’ultimo personaggio sta proprio di fronte a noi che contempliamo l’opera. È vestito di viola, il colore della penitenza e del cambiamento, cioè della metanoia, la conversione.
Questo è solo, non solo perché la penitenza è una via difficile per l’uomo, ma anche perché la conversione è un fatto strettamente personale e è una via obbligatoria per giungere ad indossare una delle altre vesti. Quest’unico discepolo che sta davanti a noi, ci rappresenta, rappresenta la Chiesa che nei tempi forti, avvento e quaresima si ritaglia uno spazio di vera penitenza per entrare nella salvezza.

Una seconda opera del Bergagna che in modo straordinario ci aiuta a penetrare il mistero di questo Figlio, unigenito del Padre, vero uomo e vero Dio che è però Signore, non solo della terra, ma anche del cielo è il panello che illustra l’invocazione Χριστἐ ἐλέησον
Christe eleison, cioè Cristo pietà.
L’ambiente biblico è sempre quello dell’apocalisse. Cristo rivela il suo volto glorioso che compie pienamente il desiderio del Padre: guardare le sue creature negli occhi.
Cristo è la stella del mattino che verrà consegnata ai giusti e che nei cuori dei giusti sorgerà a conferma della loro fede come si esprime Pietro nella sua seconda lettera: così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori. Pietro 2 – 2, 19. Ed è forse proprio Pietro, cioè il vicario di Cristo in terra quell’unico che, stante a braccia aperte (come nel gesto della celebrazione eucaristica e nella Messa), implora per tutti l’esaudimento pieno delle attese di ciascuno.
La visione qui rappresentata è la stessa del capitolo 7 dell’Apocalisse: Post haec vidi turbam magnam quam numerare nemo poterat ex omnibus gentibus et tribubus et populis et linguis stantes ante tronum in conspectu agniamicti stolis albis, et palmae in manibus eorum

Questa è la grandezza della fede e di ciò che Bergagna simbolicamente esprime in quest’opera: come per il sacrificio di uno, siamo costituiti giusti, così nella Chiesa anche per la fede di uno e la preghiera di uno, sono esauditi molti.
Quando nella Messa invochiamo la fede della Chiesa a supporto della nostra debole voce:«non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa» invochiamo la fede di Pietro e degli apostoli rappresentata in terra dal Sommo Pontefice e dai vescovi uniti lui. È chiaro che dentro l’espressione Chiesta c’è tutta la cristianità, la Lumen Gentium ha illuminato in modo straordinario questo mistero, ma è per la fede di Pietro che tutti vivono nella certezza dell’unità con Cristo.