Il credo fra bibbia e arte: la discesa agli Inferi
Credo in Gesù Cristo che discese agli inferi e risuscitò da morte.Se la risurrezione di Cristo è ampiamente documentata dall’arte di ogni tempo ed è stata affrontata da molti autori, meno invece ci si è cimentati nel mistero della discesa agli inferi.
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Il quinto articolo del Credo, secondo un’antica tradizione che abbiamo visto attestata negli affreschi della Mistadina di Sologno (NO), era testimoniato dall’apostolo Tommaso. Lui, che aveva messo il dito nelle piaghe del Salvatore, più di ogni altro era in grado di essere testimone della risurrezione.
Credo in Gesù Cristo che discese agli inferi e risuscitò da morte.
Se la risurrezione di Cristo è ampiamente documentata dall’arte di ogni tempo ed è stata affrontata da molti autori, meno invece ci si è cimentati nel mistero della discesa agli inferi. In parte per il concetto stesso di Limbo, di fronte al quale progressivamente la Chiesa ha preso una posizione sempre più in opposizione rispetto a quella antica e in parte per la difficoltà ad indagare dentro il buio del sepolcro in quei tre giorni in cui Cristo rimase come sospeso tra terra e cielo.
All’interno delle mura del convento di San Marco in Firenze, invece, i frati e i fratelli laici domenicani, accompagnati quotidianamente, per Regola, dal memento mori, cioè dalla meditazione sull’ora ultima e definitiva che sigillerà tutte le nostre opere, più facilmente indugiavano nella contemplazione di questo Mistero.
Così fra Giovanni da Fiesole, insigne pittore tra i frati, universalmente conosciuto come il Beato Angelico, e tale certificato dalla Chiesa da Giovanni Paolo II nel 1994, affrescò il Convento di San Marco adornandolo per ben due volte con questo mistero.
La prima discesa agli Inferi, di mano certa dell’Angelico la troviamo nell’armadio degli Argenti, mentre la seconda, dove gli autori riconoscono mano degli allievi, è affrescata nella cella 31.
L’iconografia è molto simile, ma il graduale passaggio di luce dagli inferi al Cristo è oltremodo suggestivo nell’affresco della Cella 31.
Questa cella era riservata ai fratelli laici, i quali dovevano trarre, dall’esempio della vita del Salvatore, motivo di meditazione proprio sul senso ultimo delle loro opere. Loro che, non essendo sacerdoti, si salvavano compiendo quelle opere che solo la fede sa suggerire, esercitavano il loro sacerdozio comune attraverso la via maestra della carità.
E quale Carità più grande ci ha fatto Cristo se non quella di liberarci dalla morte eterna? Così appunto in questa discesa nel Limbo di Cristo vediamo gli inferi (e non l’inferno, dunque –bensì il Regno dei morti) – irradiarsi di luce improvvisa.
Il limbo era quel luogo/stato in cui si trovavano coloro che erano morti col debito del peccato originale. Dal Beato Angelico (o meglio dal XIII secolo in poi) il limbo veniva identificato come la condizione di coloro che, nell’aldilà, godevano di una condizione naturale senza tuttavia giungere alla visione beatifica di Dio.
In tale limbo, Cristo, nel fulgore del suo apparire, entra come sospeso tra cielo e terra. I demoni che custodiscono le porte degli Inferi vengono schiacciati dai battenti, rovesciati dall’ingresso del Signore. Altri, abbagliati dalla luce, si rifugiano nell’antro buio di una caverna.
Il male non può sopportare la santità. La menzogna la verità, il buio la luce. Così il monaco poteva, attraverso l’esempio di questo mistero, ricordarsi che la meta definitiva (il paradiso) la si decide ogni istante scegliendo la luce, contro le tenebre, la verità contro la menzogna, la santità contro la malignità.
Benché un antico autore, che certamente fra Giovanni conosceva, racconti di un suggestivo dialogo tra Cristo e Adamo; dove il progenitore per primo saluta l’Ultimo Adamo che viene a liberarlo dalla morte, l’artista sceglie una diversa interpretazione, più legata al Vangelo di Matteo.
Matteo, infatti, nella sua genealogia, a differenza di san Luca, inizia a contare le generazioni che hanno preparato la nascita di Cristo da Abramo e non da Adamo. Ebbene anche qui non Adamo, ma Abramo accoglie festoso il Salvatore.
Abramo con un balzo raggiunge il Risorto e gli tende le mani, un Abramo luminoso e fermo, certo della salvezza, con la stessa luce e la stessa ieraticità del Cristo.
Dietro, più opachi e bruni, vediamo invece i progenitori. Sono Adamo ed Eva che con le mani giunte in preghiera attendono anch’essi la salvezza.
Adamo è attento a mettere i piedi nelle stesse orme del grande patriarca, quasi non volesse in questo momento sbagliare nuovamente, mettendo un piede in fallo dentro le crepe dello sheol. Accanto a lui Eva, dirige lo sguardo verso la luce e, forse, dietro di lei si può intravvedere il più grande fra i nati di donna: il Battista.
Attorno a loro, patriarchi e profeti tutti, che processionalmente attendono di essere liberati dalla schiavitù antica.
La Chiesa con queste opere meravigliose attesta la dignità che per essa ha il corpo umano. Alla Chiesa non basta la salvezza delle anime, vuole e crede nella salvezza dell’uomo intero. Che santi del Primo Testamento e poi profeti e poi re e patriarchi fino ad Adamo, i quali non hanno potuto godere dei meriti e delle grazie che Cristo ha portato nel mondo con la sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, possano comunque godere della salvezza, rende giustizia all’appellativo di cattolica della Santa Madre Chiesa.
La salvezza è per tutti. La salvezza è soprattutto per l’uomo intero, anima e corpo. Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede. Per questo, accanto alla discesa agli Inferi, il credo professa la fede nella risurrezione dai morti: senza questa risalita neppure la “passeggiata” di Cristo nell’oltretomba ci sarebbe servita. Tutto ciò che è assunto è redento. Non poteva perciò il Redentore non assumere in pieno anche la morte e la conseguenza che la morte porta con sé, cioè la discesa nello sheol.
Certo egli era la Vita e la Vita non può morire La sua anima non poteva conoscere quella separazione dal corpo che sperimenta ogni comune mortale, perciò l’anima di Cristo risplende nel buio degli Inferi e corona nell’umanità i suoi doni.
Abramo, infatti, è in tutto simile a Cristo perché fu Padre della fede di molti. Per mezzo di lui si salvò una moltitudine, perciò, benché in attesa della redenzione, egli è ora coronato dei doni che Cristo stesso, per mezzo del Padre, gli aveva concesso. A lui resta il merito grande di aver accolto con umiltà e responsabilità i doni divini.
Ecco allora che le porte degli Inferi, ormai scardinate dal loro posto non possono più nuocere all’uomo, anzi Cristo fa di loro un ponte sulla morte. Nell’arte orientale, le icone della discesa agli inferi, presentano spesso la croce, che ai piedi del Salvatore diventa il ponte che traghetta le anime dei progenitori dalle tenebre alla luce.
Forse opere simili aiutavano il popolo a meditare quotidianamente sul destino eterno dell’uomo, cosicché pur meditando sulla morte (il memento mori) maturavano una precisa cultura che era cultura della vita.
Così vale la pena anche per noi rivisitare simili misteri, noi che, pur fuggendo sofferenza e dolore, siamo circondati e condizionati da una cultura di morte.