Il Credo: Pilato nella narrazione di Duccio

Duccio nel verso della Maestà di Siena ci conduce per mano entro un lungo e affascinate percorso scoprendo la verità del credo: Gesù patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto.
Fonte:
CulturaCattolica.it
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Nella penombra del Museo dell’Opera, a Siena, entrando nella sala di Duccio resti ammirato e commosso di fronte alla beltà di Nostra Donna. Una Vergine mesta e serena che tenendo in braccio il figlio insegna a te, che pure sei figlio suo, a digitare sul tuo corpo l’alfabeto elementare della fede: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Le mani della Madre e quelle del Cristo, infatti, disegnano sul corpo di quest’ultimo il segno della croce.
Ed è nel segno della croce che si sviluppa poi tutto il percorso della Maestà, soprattutto nel verso che è la parte sulla quale oggi noi vogliamo fermare l’attenzione.

Nel verso della Maestà la via dolorosa del Figlio inizia con un trionfo: il pannello dell’ingresso di Cristo in Gerusalemme occupa per intero le due file di pannelli del registro inferiore.
Cristo sale verso Gerusalemme a dorso di un asino e la diagonale che disegna la sua salita porta diritto al registro superiore dove i discepoli di Emmaus chiedono al Cristo risorto e pellegrino di sostare con loro alla locanda. Prima di giungere a ciò tuttavia, Duccio segue con la sua arte l’intera via dolorosa del Salvatore. Le due file del registro inferiore culminano con due scene di Cristo davanti a Pilato, mentre le due file del registro superiore riprendono le scene del processo: Cristo davanti a Pilato e davanti a Erode e proseguono fino alle scene della risurrezione.
Duccio, seguendo la narrazione evangelica dei sinottici, racconta tutti i diversi interrogatori subiti da Cristo: davanti a Caifa, a Pilato, a Erode poi ancora a Pilato. Racconta la resa del governatore romano con il fatidico gesto di lavarsi le mani e documenta così come il popolo cristiano abbia sempre tenuto in gran conto e tenuta cara la memoria di questi eventi della Passione.
Duccio poi, con la finezza che gli è propria, mette in relazione i vari pannelli all’interno della Maestà creando così una sorta di circolo ermeneutico atto a rendere più evidente il dramma e il Mistero.

Il primo incontro di Cristo con Pilato lo troviamo nel registro inferiore nell’ultimo pannello, in alto. La scena è dipartita: una parte è occupata dal Pretorio dove tre colonne incorniciano il dialogo di Gesù con il governatore romano. L’altra parte, invece, quella esterna è interamente occupata da maschere urlanti, sono i sommi sacerdoti e i farisei contrari a Gesù, che vogliono la sua condanna a morte. Abbiamo già incontrato questi volti, ma più tardi capiremo dove, Duccio ce li ha fatti conoscere.

Cristo è incorniciato dai soldati, uomini per nulla minacciosi ma quasi compresi del Mistero che sta accadendo sotto i loro occhi. Pilato, invece è solo, ed è seduto su un trono al quale si accede per mezzo di due gradini, evocazione di quella visione bidimensionale che non permette all’uomo di vedere la dimensione del Mistero. Pilato si rivolge a Cristo con aria interrogativa come suggerisce la mano dello stesso lasciata a mezz’aria e rivolta direttamente al Salvatore. Il contenuto del dialogo lo conosciamo dallo scettro che Pilato tiene nella mano sinistra. Egli sta chiedendo a Cristo: «Dunque tu sei re?».
Gesù è al centro della scena e copre interamente la colonna di mezzo, egli stesso sembra, a dire il vero, la colonna di quell’edificio. È interessante notare come gli abiti di Pilato e quelli di Cristo abbiano gli stessi colori. Blu, il blu dell’oscurità e quindi anche dell’ambiguità, nell’abito di Pilato, mentre rosso il suo mantello, segno di un potere regale che gli è stato conferito ma che non gli appartiene.
Diversamente è rosso l’abito di Cristo, perché la sua regalità gli è propria e connaturale, Egli è re perché è Dio, mentre è blu il manto perché ha assunto la natura dell’uomo e con essa ha consegnato tutto se stesso nelle mani del Padre per l’opera della Redenzione. Questo a Pilato sfugge, è un Mistero che non può capire.

Alla mano alzata di Pilato fa eco il braccio levato di uno dei capi dei giudei, là fuori. Anche questo sommo sacerdote veste colori che rimandano a Cristo e Pilato. Egli però veste il rosso geranio e l’azzurro, due colori che accostati venivano interpretati come i colori dell’inganno, della maldicenza, della calunnia. Egli pare discutere con i suoi correligionari, i quali forse non concordano in tutto per tutto con lui, ma nel sollevare il braccio egli inevitabilmente indica un pannello più alto, un pannello del registro superiore: l’incontro della Maddalena con il Risorto.

Là, nel Pretorio Cristo si manifesta re di un altro regno e, attorno a lui, pochi lo credono. Non lo vogliono re né i romani, di cui Pilato è rappresentante legale, né i Giudei che là fuori gridano il loro «crucifige». Sopra, dove indica il Giudeo in primo piano, la Maddalena, una donna, una giudea, una che per gli uni e gli altri poco contava, riconosce in Cristo non solo il vero Re ma anche il Maestro e Dio stesso, cioè Rabbunì. Titolo solenne che l’ebreo dava talora a Dio stesso.

La narrazione pittorica di Duccio continua con il confronto fra Pilato e i giudei. Questa volta Gesù si trova davanti ai due gradini del trono di Pilato e guarda verso l’esterno. Guarda cioè verso i secoli che verranno dove i rifiuti dell’umanità nei suoi confronti si perpetueranno all’infinito.
Sono i soldati che con i loro volti interrogativi ci riportano al cuore della scena.
Questa volta è il Sommo Sacerdote con gli abiti tinti dall’inganno che volge la mano verso Pilato ad interrogarlo. Come là sopra Pilato con un analogo gesto chiedeva a Gesù:«dunque tu sei re», così ora qui il giudeo chiede a Pilato «dunque tu non sei amici di Cesare». È lo scontro fra due poteri quello terreno e quello celeste. Pilato è in mezzo quale rappresentante di un potere che non si è dato da sé ma gli viene da Dio. Si avvolge infatti con il manto rosso, porta la mano al cuore – a testimonianza del suo verdetto: «non trovo in quest’uomo nessuna colpa» - e non ha più in mano lo scettro, ad indicare che l’oggetto della disputa non è il suo piccolo potere, ma neppure il grande Potere che viene dall’alto, da Dio, ma il potere di Cesare.
Ancora i giudei tengono la mano verso l’alto obbligandoci a guardare alla formella corrispondente del secondo registro, cioè i discepoli di Emmaus.
Là ogni diatriba è dissolta il vero potere è rivelato, è quello del Re della vita che ha potere sula morte e sugli inferi. Come qui un tale re e un tale potere è rifiutato, là invece è desiderato. Gesù – che vestito da pellegrino fa mostra di voler andare oltre la città che sta davanti a loro (Siena stessa)- è trattenuto dai discepoli che desiderano invece la su compagnia. Come nel pannello del registro inferiore, Cristo guarda fuori, qui Cristo in-segna, indica i confini della terra, per questo porta gli abiti del pellegrino in viaggio per Compostela (o sulla via francigena di cui Siena era il punto di approdo e di raccordo con la via Romea), perché Egli deve andare finis terrae. Come costante nel tempo sarà il rifiuto di lui allo stesso modo costante nel tempo sarà il desiderio di lui da parte delle genti.

Il ciclo pittorico continua e dopo il pannello che raffigura l’incontro di Cristo con Erode, qui, benché non ci si possa soffermare ad illustrare tutti i particolari, va notato l’abito bianco che uno dei servi di Erode impugna e che sta per mettere a Gesù. Erode siede su un trono con tre gradini e non due. Tre gradini perché egli è un re che regna sul popolo di Dio e, dunque possiede un potere che è davvero divino (porta infatti una tunica rosa, cioè il rosso – della regalità trasfigurato dalla luce).
Nella scena seguente Cristo, davanti a Pilato, è di nuovo al centro in corrispondenza della seconda colonna che si identifica totalmente con l’abito di lui. Ora indossa la tunica della burla di Erode, la tunica della pazzia ma che qui, proprio di fronte al potere romano rivela la sua vera identità. Quella, infatti, è l’alba, cioè l’abito sacerdotale, l’abito che porteranno quei neofiti che, ricevendo il battesimo, saranno sepolti con lui nella morte per risorgere a vita nuova. Avviene come in tutti i piani di Dio un mutamento delle sorti, ciò che l’uomo usa per schernire diventa per il martire occasione di trionfo.
L’abito dice la distanza massima che intercorre qui fra Cristo e Pilato. La domanda che soggiace al dialogo, infatti, non è più: «dunque tu sei re», ma: «che cos’è la verità». Ora Pilato non ha lo scettro e il gesto della mano è più morbido meno imperioso di quello precedente.
Ancora i soldati fanno corona attorno a Cristo, ma questa volta uno di loro ci guarda, ci interroga. Che così per noi la verità?
La risposta medievale è evidente proprio dell’abito di Gesù, la verità e luce, e Cristo è la luce. La verità è guida e Cristo è la via. La verità è vita per l’uomo e Cristo è a vita, per questo veste l’alba che è già l’abito della risurrezione.
Fuori dal Pretorio, si consuma il complotto, anche i giudei che prima apparivano incerti vengono coinvolti nel giudizio, anzi nel verdetto. Ma dove li abbiamo già visti, questi uomini ambigui. Dove Duccio ce li ha fatti incontrare? Dobbiamo tornare all’inizio del cammino, al primo pannello, quello dell’ingresso trionfale in Gerusalemme che sta proprio sotto questo pannello, nel registro inferiore. Ecco dove li abbiamo visti, tra coloro che gridavano «Osanna al Figlio di David!», c’erano anche loro. Là osannanti, qui indignati, e sotto la croce, i medesimi volti, urlanti di rabbia.
Duccio presenta l’escalation del male che si scaglia contro l’Innocente a testimonianza che, come dice il Prologo dell’evangelista Giovanni, questi è veramente il Verbo di Dio, luce per gli uomini che le tenebre hanno voluto conculcare.

Dopo aver presentato Cristo davanti a Pilato, come Agnello mansueto condotto al macello, ecco ora la scena della flagellazione. Qui lo splendore del Cristo è consegnato alla carne. Cristo è nudo, non è più collocato al centro del Pretorio, in corrispondenza della colonna centrale, quasi protetto da una giustizia umana che ancora tiene. Qui è ormai allo sbando si trova legato alla colonna più esterna più vicina ai suoi accusatori. Pilato questa volta allunga la mano verso la folla inferocita ha ripreso in mano lo scettro ma ormai il suo potere si è rivelato fallimentare, il mantello rosso porpora della sua regalità gli cade dietro le spalle. II corpo del Salvatore è pieno di sangue e, non a caso, sotto nel pannello corrispondente del registro inferiore, Duccio colloca l’ultima cena. Il momento in cui Cristo offre il suo corpo e il suo sangue in riscatto per molti e rivela ai suoi:«uno di voi mi tradirà». Lo sguardo di Gesù verso i suoi, qui, è lo stesso sguardo di Gesù verso i giudei nella scena della flagellazione. A dire che non è questione di razza o di religione, ma di libertà e di umanità. Sovente nella storia: Inimici hominis domestici eius (Matteo 10,36).

La penultima scena con Pilato è quella dello scherno. Cristo è il re di burla. La folla ha invaso il Pretorio, ma non sono i capi, sono piuttosto la gente del popolo, sobillata e inferocita senza capire. I capi se ne stanno dietro il loro portavoce ormai si copre le mani, pronto a dimostrare la sua innocenza qualora il vento della storia mutasse il suo corso. Così Duccio descrive la lotta dei poteri umani contro il potere divino che si veste di umanità e umiltà.
Nel registro inferiore, dunque, con la solita corrispondenza Duccio ci offre la scena della lavanda dei piedi, che ratifica e chiarisce la natura del potere di Cristo.

Sopra lo scettro è in mano al Salvatore e Pilato è tornato a sedere sul suo trono. Il giudizio è dato, egli vorrebbe solo punirlo e poi lasciarlo in libertà. Vista però l’inefficacia del suo tentativo, la scena seguente presenta il gesto con cui Pilato fu siglato nei secoli e, forse implicitamente, anche nel credo: il lavarsi le mani. Pilato consegna Gesù ai suoi accusatori. Contro la medesima colonna davanti alla quale la vittima Innocente è stata giudicata, spicca ora la brocca dell’acqua che lava le mani a Pilato. Il mantello non lo avvolge più, il suo potere è finito, e l’abito si tinge di viola, il colore del cambiamento.
Gesù pure ha perso il suo mantello, ora veste solo la tunica del martirio in ossequio alle profezie (Is 63,1-3.5):
Chi è costui che viene da Edom, da Bozra con le vesti tinte di rosso?
Costui, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza?
- «Io, che parlo con giustizia, sono grande nel soccorrere».
- Perché rossa è la tua veste e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel tino?
- «Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me
Li ho pigiati con sdegno, li ho calpestati con ira.
Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti…
Guardai: nessuno aiutava; osservai stupito: nessuno mi sosteneva.
Allora mi prestò soccorso il mio braccio, mi sostenne la mia ira.


Pilato, dicevamo, consegna Gesù ai suoi accusatori, sotto, nel registro inferiore, Giuda vende Gesù agli stessi giudei. L’epilogo di questa consegna si conclude per Duccio qui, nel pannello che precede la crocifissione: Cristo incontra la Madre.
Cristo prima di salire il Calvario, idealmente incorniciato dalla croce che sta portando il cireneo, si volta e vede la Madre e le pie donne. Le uniche ad essere con lui.
Se Cristo ha perso il suo mantello, la Vergine ha perso il rosso del suo abito, interamente coperto dal mantello blu. La passione della Madre è la passione del Figlio, ma la fede della Madre nel Mistero che ha generato quel Figlio è, in questo momento la fede della Chiesa, infatti in corrispondenza a questo congedo, sotto nel registro inferiore ce n’è un altro: Cristo si congeda dagli apostoli dicendo loro: «amatevi come io ho amato voi».

La misura di questo amore è il dono di sé, il credo ci racconta tutto questo e ci insegna a rimanere fedeli a questa verità così semplice e così umana perché è una verità che si è intessuta nella storia: Cristo patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto. Cristo uomo come noi, dentro le trame della storia come noi però uomo che è la luce della verità perché
Duccio insegna cosi, ai suoi senesi e, quindi anche a noi, quanto siamo tutti responsabili. È responsabile la folla, là fuori dal Pretorio, e il potere, dentro al Pretorio. Non c’è nessuno che non debba fare i conti con la verità. Non va male un paese perché è colpa del potere costituito, ma va male per colpa dei suoi abitanti. Non vanno male le cose in un governo perché mancano i politici giusti, ma mancano i politici giusti perché manca l’amore per la verità nel popolo che li elegge.
Ieri, come oggi, Duccio insegna la verità grande della nostra fede espressa forse con grandissima efficacia da un aforisma non cristiano, ma ebreo: chi salva una via salva il mondo intero. Mai frase fu più adatta ad indicare la colpa di Pilato, davvero salvando una vita lui avrebbe salvato il mondo intero. Questo mondo però, si salverà lo stesso a dispetto di tutti i Pilato della storia. Si salverà per Cristo e per quella chiesa che sull’esempio di Maria continua a credere.



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