Ebrei e cristiani, il dramma del Covid
In occasione della Giornata del Dialogo Ebraico Cristiano (17 gennaio) pubblichiamo il contributo di suor Maria Gloria Riva a un libro che si inscrive nella storia del dialogo interreligioso. L’editore ebreo Guido Guastalla (carissimo amico della Comunità) ha tessuto un mosaico di voci per raccontare nella fede il dramma del COVID. Il testo è ideale accompagnamento nella giornata del Dialogo fra ebrei e cristiani del 17 gennaio, dedicata al Qoelet e al dramma della sofferenza.Suona il telefono. È l’ennesima richiesta di aiuto negli ultimi mesi. La donna, parlando con voce rotta, ci racconta del marito: un ménage familiare difficile, una riconciliazione inaspettata, poi il marito si offre per curare la madre malata di Covid. La madre muore e lui si trova malato ancora più gravemente. Ora i suoi polmoni sono di pietra. Un caso disperato. Riecheggiano nel mio cuore le ultime parole della donna mentre, in coro, medito sul passo di Genesi 19. Nella biblica Sodoma non si trovarono giusti se non nella famiglia di Lot. Grazie all’intercessione di Abramo, Lot viene salvato dalla distruzione della città e fugge con moglie e figlie. Anche nella sua famiglia però era serpeggiato il male: la moglie di Lot con i passi si allontana dalla città ma con il cuore resta ancorata ad essa e si volta. Quello sguardo fu fatale e la donna divenne di pietra. Un’arida statua di sale priva dell’acqua della torah. Mi sorprende l’immagine simbolica di un male, il coronavirus, che fa inaridire quella traccia atavica dell’albero della vita in noi: i polmoni. Benché per noi moderni l’equiparazione male-peccato sia inaccettabile resta pur vero che nel male, in ogni male, l’uomo stesso scorge qualcosa di maligno che toglie l’insopprimibile anelito alla vita. L’anelito a quell’eterno bene che i credenti chiamano Dio. Nella stessa Bibbia si trova traccia di questa ambigua combinazione laddove, nel deserto, serpenti infuocati, saraf, mordevano il popolo. La radice saraf si ricollega a seraf, ovvero esseri angelici infuocati: i serafini. Il sommo male, il serpente, ambiguamente sovrapposto al sommo bene, il serafino, essere angelico infuocato d’amore.
Così la malattia mette all’angolo: cancella tutte le pretese umane di autosufficienza e pone nella condizione di chi deve mendicare la vita, il bene, la salute, ai medici anzitutto, ma anche in ultima analisi al Medico con la M maiuscola che è Dio stesso.
Eppure pochi ricorrono a Lui, pochi si ricordano che i mali vengono sempre per riportare il cuore a ciò che conta davvero: al destino ultimo, alle relazioni più intime che sostengono la vita e il cuore degli uomini. I deliri di onnipotenza e i paradisi artificiali delle Sodoma e Gomorra di ogni tempo sfumano di fronte a una vita che si spegne nel sale. Riascolto la voce rotta della donna che al telefono implora per il marito e la benedico. Ha avuto fede nella preghiera, oltre che nella necessaria bravura dei medici. Si è rivolta a Colui che tutto può e che tutto dirige nella sua ineffabile provvidenza. L’Europa del resto ha conosciuto epidemie terribili che hanno lasciato tracce nella storia attraverso imponenti ex voto, opere d’arte che testimoniano l’intervento divino e la fede degli uomini nella preghiera. Penso alla stupenda Madonna della Salute di Venezia, ma anche a un’opera, forse meno cosciuta, dalla testimonianza inequivocabile. Si tratta dell’Altare di Issenheim, presente a Colmar in Germania. Matthias Grünewald lo realizzò per i medici Antoniti (religiosi legati a Sant’Antonio Abate e medici del Papa). Questo altare è una sorta di macchina liturgica usata nel percorso di guarigione dei malati Herpes Zoster e di altre malattie infettive, altamente mortali nell’Europa di quel secolo.
Lo sguardo dei malati si posava su un Cristo dal corpo sfigurato e pieno di pustole esattamente come loro consumati dall’Herpes Zoster, ma subito dopo ecco, nel pannello della risurrezione, la promessa di una guarigione piena. Questa è l’immagine più bella per raccontare la speranza, la stessa speranza che colmava lo sguardo dei malati del 1500. Il risorto di Grünewald si eleva sopra un sepolcro che ha la forma del fungo atomico. Certo nulla poteva immaginare l’artista di quello che avrebbe vissuto l’umanità nel XX secolo, ma proprio per questo l’immagine si carica di senso e profezia. Di fronte ai terremoti più spaventosi, alle calamità più gravi si eleva l’arcobaleno della speranza: la morte non è l’ultima parola per l’uomo, c’è un «più in là» che va sempre tenuto presente. Non solo quando la paura e il dolore bussano alla porta, ma sempre. L’altare, pur essendo commissionato da medici che si adoperavano con i mezzi di allora per guarire, non disdegna di collegare la malattia e la morte con il Maligno. Nella pala di Issenheim sorprende vedere, proprio alla fine del ciclo di terapie che, mentre i malati erano guariti, il demonio, sconfitto, aveva su di sé le stesse piaghe dei malati. C’è un mistero dell’iniquità che non va sottovalutato o sottaciuto. C’è un nemico dell’uomo che vuole la morte e la distruzione dell’umanità, sfrutta tutti i mezzi per poterlo fare e le testimonianze nell’arte e nella storia della Chiesa e dell’ebraismo abbondano. Non dobbiamo ignorarlo, ma nemmeno temerlo. Il Signore vuole la nostra vittoria e la nostra salvezza più di noi.
Leggi una recensione del libro